Articoli

L’eleganza dei nomadi

AFRICA – NR 3/2022

testo di Elena Dak – foto di Michele Cattani / Afp

ESTETICA E ANTROPOLOGIA DEI PEUL E DEI TUAREG

Per i pastori del deserto l’eleganza e il garbo sono antidoti alla desolazione e all’ostilità dell’ambiente. Il loro culto della bellezza ha un valore identitario che cela profondi risvolti sociali, come dimostrano il significato dei turbanti e del make-up sahariano.

Benché vivano in terre desertiche o aride, i Tuareg e i Peul, nomadi dediti alla pastorizia, non rinunciano alla cura dell’aspetto fisico: un’attenzione di sé tuttavia mai fine a sé stessa, ma sempre orientata a scopi socialmente definiti. I due popoli, sparsi in buona parte del Sahara e del Sahel, vivono in territori attigui e questo ha stimolato attriti fe- roci o profonda collaborazione, a seconda delle circo- stanze. In Mali e Burkina Faso, le tensioni che li vedono protagonisti sono laceranti, ma in Niger, a fine stagione delle piogge, chiunque si aggiri per le dorate savane nei dintorni di Abalak troverebbe decine di famiglie tuareg e peul in spostamento per raggiungere insieme gli stessi pascoli ricchi di sale e buoni per le loro bestie.

La vicinanza tra i due gruppi in Niger è tale che i Peul hanno assunto nel loro abbigliamento alcuni degli ele- menti tipici della parure tuareg, come il turbante, la spada tradizionale, detta takuba, e gli astucci di cuoio rosso da portare al collo ed esporre sul davanti, utili per il tabacco o i soldi. La condivisione degli stessi spazi, per quanto estesi, ha favorito la migrazione di dettagli estetici da un gruppo all’altro, a riprova della porosità di ogni etnia e dell’apertura ad assumere tratti di altre attigue. Chiunque si trovi a passeggiare da dicembre a febbraio per le strade di Agadez potrà imbattersi in uomini velati e abbigliati con le lunghe tuniche in tessuto bazan, coperti da ampi cappotti color cammello lunghi fino a metà tibia che incarnano la moda invernale del momento.

Discrezione e fierezza

In genere non esiste celebrazione familiare o di villaggio, o anche una semplice visita a parenti o conoscenti, che non sia pretesto per abbigliarsi in un certo modo e addob- bare sé stessi e i dromedari con abbondanza di finimenti

Gado, pastore di 30 anni, posa per una foto durante il festival della Cure Salée, nel nord del Niger. Migliaia di nomadi peul e tuareg provenienti da diversi Paesi del Sahel e del Sahara partecipano ogni anno a un grande raduno pastorale di

tre giorni che si tiene in ottobre alla periferia dell’antica città commerciale di Ingall

di pelle accuratamente dipinti, per usare la sella migliore e per avvolgere sul capo metri di stoffa per il turbante, l’elemento che più di ogni altro identifica gli uomini di questo gruppo. Il tagelmust è una lunga fascia di cotone, lunga di solito fra i 3 e i 5 metri, ma che può arrivare an- che a 10, tinta di indaco e avvolta sul capo e sul viso dei Tuareg in modo da formare al contempo un turbante e un velo che copre il volto, lasciando libera solo una fessura per gli occhi. Il tagelmust fa parte dell’abbigliamento di ogni Tuareg, ma soprattutto è parte integrante del modo di comportarsi, è un’emanazione del codice di valori in cui si intrecciano discrezione e fierezza.

La fascia sulla fronte del turbante si chiama asshak e rap- presenta l’insieme delle cose che rendono un uomo degno di esser detto tale.

Parole da allevare

La parte invece che ricopre bocca e naso, detta tenna, rappresenta la capacità di tener fede a ciò che si dice, alla parola data. Nell’ambito di una cultura pastorale incentra- ta sulle transumanze e sulla cura quotidiana degli anima- li, in una società dove tutti, eccetto i fabbri, sono anche pastori, pensare che l’attenzione rivolta alla parola pre- veda lo stesso senso di accudimento rivolto agli animali e che quindi l’uomo attraverso il velo sia pastore della propria parola dà la misura dell’attenzione, della premura, della riflessione con cui si fa uso della parola, preziosa come i capi del bestiame. Una parola che va allevata, nu- trita, addestrata; la parola come qualcosa di cui prendersi cura come il corpo o l’abbigliamento. La tradizione vuole che occhi, orecchie e naso siano il più possibile coperti dal velo sia per proteggere da vento, sole e freddo sia per impedire che gli spiriti cattivi si infiltrino dagli orifizi.

Turbanti diversi

Pertanto l’uso del turbante, elemento così appariscente e distintivo dell’aspetto estetico dei Tuareg, nasce da ne- cessità pratiche legate all’ambiente così come da credenze spirituali e, come conseguenza, conferisce mistero e ma- està agli uomini, togliendo quel tanto di umano, di vero, che c’è in ogni volto. Esso è rappresentativo dell’identità di un gruppo e al tempo stesso della personalità di cia- scuno, in quanto ogni uomo lo avvolge in maniera propria sovrapponendo in molteplici giri concentrici la fascia di tessuto: chi ne fa una grossa ciambella panciuta, chi lo compone in verticale creando una sorta di cilindro, chi incastra l’estremità che chiude le volute in modo vezzo- so e appariscente creando una sorta di fiocco. Durante le attività quotidiane i turbanti indossati sono quelli “da lavoro”, usurati e sporchi però mai avvolti con disatten- zione o malamente.

Il classico velo da festa, detto alesho, composto di al- meno cinquanta strette fasce di tessuto di cotone cucite insieme e tinte d’indaco, viene usato solo in circostanze cerimoniali. Il colore di cui il tessuto è imbevuto non è

fissato in modo indelebile giacché non esiste un mordente per l’indaco, che rilascia sulla pelle sfumature bluastre dai riflessi metallici, ed è previsto che queste vengano lasciate sia per proteggere la cute sia perché il viso, così conciato, è esteticamente molto apprezzato.

Codice di comportamento

Tra i Peul vige un codice di comportamento a cui tutti si ispirano, il pulaaku, che detta non solo le regole dell’a- gire per essere degni di definirsi Peul ma anche le regole del parlare, del tono di voce, del modo di guardare e di atteggiarsi. Il portamento e le buone maniere sono valori assoluti tra i Peul, e vanno celebrati assieme al concetto di tappol, la bellezza fisica.

Fieri del proprio look, i pastori wodaabe (frazione del mondo peul sparsa tra Niger e Ciad) si radunano ogni anno nel cuore del Sahel alla fine della stagione delle piogge in occasione del Gerewol, sorta di grande festa della vanità che celebra la bellezza dei nomadi ed è l’oc- casione in cui si combinano i matrimoni.

Truccati e abbigliati in modo esuberante, i giovani osten- tano la propria prestanza fisica e danno vita ad una spet- tacolare cerimonia fatta di danze sensuali e sguardi ammiccanti. Non è un semplice concorso di bellezza, ma un rituale estetico che ha un profondo valore sociale. Tali cerimonie, favorendo i matrimoni tra esponenti di clan diversi, sono uno strumento prezioso per rafforzare la

coesione di un gruppo etnico altrimenti molto frammen- tato. Per sette giorni e sette notti i danzatori di due diversi lignaggi, accordatisi, si confrontano in una battaglia a colpi di danze e canti i cui protagonisti sono gli uomini sulla scena e le donne, oggetto di seduzione e potenziali candidate per nuovi matrimoni.

Grazia contro le spine

I giovani nomadi dedicano ore a truccarsi e a danzare esibendo la loro bellezza fisica e la grazia nel portamento oltre che l’abilità nelle movenze atte a riprodurre i mo- vimenti dell’airone bianco dalle lunghe zampe che sosta sui buoi. La cura di sé e l’attenzione per la bellezza so- no parte del processo di costruzione della relazione con l’ambiente: in un mondo di spine, erbe pungenti, acqua fangosa, piogge solo estive se va bene, scorpioni nel buio e soli impietosi, il pulaaku, nell’imporre, tra le altre cose, garbo, una certa postura e la cura del proprio corpo, ali- menta un anelito costante al valore assoluto della bellez-za. Avere cura del proprio corpo e adornarlo anche nello svolgimento delle pratiche quotidiane ha a che vedere con le norme che regolano la relazione quotidiana con l’altro, improntata al riserbo e all’eleganza nei modi e nei toni, ma non solo: più l’ambiente è ostile, più garbato deve essere il modo di calpestarlo. La boscaglia saheliana è insidiosa, e solo l’eleganza posturale e gestuale permette di relazionarsi ad essa a schiena dritta.