La Transumanza in Ciad è storia di pastori bovari, di passi, di polvere, erba e acqua, di zoccoli di cavalli in corsa, di piedi scuri ed esili di uomini danzanti truccati come circensi, e caviglie ossute di femmine intente a scrutare il più bello. La bellezza, appunto: è la storia di un popolo dai lineamenti raffinati, impastato del culto del bello, per sé e le proprie bestie. Le vite dei pastori sono capaci di prendermi per settimne, cinque in questo caso. La loro costante mobilità, la fluida percezione del tempo, la capacità di fare di ogni erba spazio domestico, i fuochi consolatori e i tè rigeneranti, la dedizione alle bestie che sono cibo, fatica e orgoglio fanno di quel mondo una scheggia pervicace di resistenza contro culture e governi che vorrebbero trascinare i nomadi via dal vento e dallo spazio e portarli nelle case, sulle terre per farne dei contadini o degli artigiani. Ma i Woodabe resistono e parlano delle loro mandrie come del bene più caro. Hanno scelto da generazioni di allevare gli zebù Bororo dalle alte corna a lira, una razza debole e piena di difetti ma talmente bella e possente da essere loro prediletta, e il popolo transumante ha preso lo stesso nome dei buoi, Bororo, per dimostrare la piena sintonia con gli animali che allevano.
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