Dopo decenni di guerra e di condizioni assai difficili se non rischiose per qualsiasi tipo di ricerca o missione che fosse al di fuori dei teatri di guerra o dei nascondigli dei ribelli, sono partita verso una delle terre nomadi per antonomasia. Superando decine di check point controllati dai nuovi talebani, dei Sandokan moderni con lunghissimi capelli corvini e kajal sugli occhi, mi sono potuta muovere in molte regioni del centro nord alla ricerca dei nomadi Kuchi di etnia Pashtun.
Essi rispettano la grande migrazione in primavera e in autunno ma anche all’interno delle macro aree stagionali effettuano micro spostamenti. In questi ultimi anni la siccità ha reso i ritmi e le strategie necessarie allo sfruttamento dei pascoli da parte dei nomadi ancora più imprevedibili e caricato di maggior tensione gli storici attriti con i nomadi Hazara di etnia turco-mongola, al punto che in certe zone, controllate da questi ultimi, i Kuchi possono portare solo le greggi ma non le loro tende. Queste, le ho trovate nel cuore delle montagne dell’Hindu Kush dopo ore di cammino, sugli altopiani sopra il bacino del fiume Amur Darya, tra le ciminiere delle fabbriche di mattoni e in mezzo a strade asfaltate con folte greggi e dromedari. Ho sorbito decine di fumanti bicchieri di tè verde, chiacchierando con loro per tentare di capire quanto la siccità e il nuovo stato di cose interferiscano con la possibilità di accedere alle poche risorse disponibili in una terra in cui bellezza, contraddizioni e complessità sono tutte su ciascuna faccia della medaglia. Il senso dell’ospitalità, sacro, la collusione di alcuni con le forze talebane, la quasi totale impossibilità di accedere al mondo delle donne, hanno reso ogni minuto di permanenza nelle loro tende un privilegio raro, foriero di interrogativi, perplessità e conoscenza reciproche.